Abbigliamento sexy: colpevole o innocente?

The case

Una condanna per violenza sessuale a un 32enne di Firenze, che aveva costretto l’ex fidanzata a rapporti intimi, viene confermata dalla Cassazione (Cassazione Penale sez. III, sentenza n° 34870/2009).
Il ricorrente si era difeso sostenendo che la donna si era presentata all’appuntamento in abiti succinti, circostanza che equivaleva, secondo il suo sentire, ad una incontestabile disponibilità sessuale della ragazza. Come se, un abbigliamento sexy possa costituire “una causa di giustificazione del gesto violento”. Chiara la posizione della Corte Suprema: “È del tutto insignificante l’abbigliamento della ragazza dovendosi ritenere ormai pacifica la libertà per ognuno di indossare ciò che si vuole e dovendosi escludere che un abbigliamento potenzialmente seduttivo della donna “giustifichi” in alcun modo un abuso sessuale”. Ragione per la quale integra il reato di violenza sessuale l’aver costretto l’ex fidanzata, ad avere rapporti intimi, nonostante la stessa indossasse, in quella occasione, degli abiti succinti, circostanza questa che non costituisce forma di consenso.

According to the Lawyer Sexologist

La sentenza resta interessante nell’attuale dibattito sugli stereotipi che inducono alla violenza o alle molestie e che dimensionerebbero la donna in ruoli provocatori d’impulsi sessuali irresistibili per il solo fatto di indossare certo tipo di abbigliamento. Tanto da dover pensare, per certe esasperazioni dialettiche, ad un outfit di casto tipo monacale. La Cassazione “assolve” l’abbigliamento sexy, ma è proprio così per tutti?
Nonostante la moda, le trasmissioni televisive, la pubblicità esibiscano corpi e parti del corpo volutamente diretti a provocare “interesse” sessuale e non certo l’ammirazione secondo i canoni filosofici dell’estetica o, quanto meno, del più accessibile concetto di “bello”, non sembra davvero che, nell’immaginario collettivo, passi senza suscitare pruriginosi pensieri una donna che, anche al di fuori di contesti televisivi o simili, mostri abbigliamento di chiaro richiamo erotico.
Con il rischio presente e parallelo della sovraesposizione del nudo e dell’esasperazione del sesso che finiscono, così, con il creare tutta una serie problematiche da far apparire difficile vivere una sana sessualità, fatta di intimità e volta al benessere personale e di coppia. Cosa che vuol dire privare la sessualità della sua natura e del suo fine. Ma questa è un’altra questione.
L’abbigliamento sexy certo non giustifica la violenza, se non altro perché il consenso (se mai equivalesse a consenso) è revocabile anche in baby doll. E per questo basta solo un “no”, non certo avere pronto in borsa un saio austero da indossare all’occorrenza.
Fin qui tutto chiaro.
Ma le idee si confondono nuovamente se pensiamo che certo tipo di outfit, rectius dress code, possa, secondo quanto oggi balzato all’attenzione dei media e della magistratura, servire ad “aiutare” la preparazione per superare concorsi pubblici di rango molto elevato. Dove, ad essere valutate, dovrebbero essere ben altre prerogative e qualità. Qualcuno è disposto a credere che questo tipo di look aumenti la concentrazione, la memoria o il rendimento della performance d’esame? Attendiamo risposte.
Solo ci dispiace per i concorrenti maschi che non solo non potranno avvalersi di questa utility, ma che dovranno impegnarsi per concentrarsi al massimo sui compiti e per non distrarsi a guardare le colleghe in minigonna e tacco 12. Perché distraendosi rendono meno. E perché guardare, ancora, non è reato.

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