Che sia chiaro: se fa male, non è amore

Ancora oggi i media, ma, cosa ben più grave, anche esperti che stilano programmi di prevenzione in materia di violenza sulle donne, usano termini come “amore violento, amore criminale, troppo amore, delitto passionale” unendo in maniera antitetica aggettivi, avverbi e sostantivi. Qualificheremmo mai una “malattia sana”? Una velocità ferma? Un temporale asciutto? Amore e passione sono la negazione della violenza e del crimine, come la velocità nega la stasi, come l’urlo nega il silenzio. La questione non è solo terminologica, è concettuale e sostanziale. Il “delitto passionale” aveva una (ignobile) esistenza nel nostro ordinamento in ben altra epoca, quella in cui la violenza sessuale era un reato contro l’onore (della famiglia della vittima!), quando l’adulterio era un reato (per la donna sempre, solo in presenza di stabile relazione extraconiugale per l’uomo) e quando vigeva la potestà maritale. Il nostro ordinamento giuridico, seppure lentamente, si è evoluto tanto da definire incontestabilmente la sessualità come diritto inviolabile della persona, senza distinzione di sesso (né di orientamento sessuale). Ne ha affermato la capacità di autodeterminazione in capo al titolare per cui ogni atto subito in violazione della libertà di scelta (anche una carezza non voluta) si qualifica come lesione di un diritto personalissimo e, perciò, violenza sessuale. Nell’attuale contesto storico-sociale, usare terminologie inappropriate significa non solo ignorare il cammino del nostro legislatore, ma soprattutto “edulcorare” reati gravissimi con epiteti che ne minimizzano la portata e quasi (orrendamente) finirne per “giustificare”, almeno terminologicamente (ma la parola non è forse un’apertura cognitiva?), la realizzazione. Nell’immaginario collettivo, l’uomo disperato per amore è quasi un eroe romantico (e Dio solo sa quanto bisogno di romanticismo oggi ci sia). Ma altro è la sofferenza amorosa, altro è la violenza. Saper amare passa attraverso se stessi, il proprio equilibrio emotivo, il rispetto di sé e dell’altro. La dipendenza dal partner, l’incapacità di gestire emozioni e situazioni, le reazioni inconsulte al rifiuto, la violenza affondano le radici altrove, non nell’amore. Chiamiamo le cose con il loro nome e, soprattutto noi professionisti della sessuologia, non permettiamo che continui la terminologia invalsa. Chiamiamo, da tecnici, i reati con il loro nome. I termini come amore e passione uniamoli a rispetto e libertà di scelta: la “pretesa” sessuale non è il passaggio dell’amore che, invece, segue ben altri percorsi. Che la sessualità sia sempre l’ambito in cui possiamo realizzare il nostro benessere e realizzare la nostra personalità, non una forma impropria di potere con cui tenere legato qualcuno: che i nostri clienti comprendano subito dove nasce il problema prima che sia troppo tardi.
E che lo capiscano anche i promotori dei progetti pubblici e privati di prevenzione, destinati a fallire e a incancrenire proprio ciò che dichiarano voler combattere.
Le strade giuste ci sono: che se ne accorga la politica prima di sperperare i finanziamenti in manovre poco accorte, inutili o, peggio ancora, dannose; che lo capiscano i giornalisti, il cui sacrosanto diritto di cronaca prima del sensazionalismo è un dovere sociale. E che seguano percorsi giuridici e sessuologici complementari, i professionisti del diritto, della psicologia e della sessuologia.
Questo aiuta il cambiamento.

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